La curva normale non è la normalità

Ogni giorno prendiamo decine e decine di decisioni, molte delle quali mutuate dalla nostra esperienza e dal nostro vissuto.

Abbiamo un’idea precisa di cosa dovrebbe essere “normale”, e quindi “da preferire”.

Questa idea si è modificata nell’era moderna, perché deriva in parte dalla scoperta del matematico Carl Friedrich Gauss (1777-1855): la “gaussiana” o “curva di distribuzione normale”.

La distribuzione normale (fonte: doctordisruption.com)

La distribuzione normale (fonte: doctordisruption.com)

Per capire come si legge la curva, basta condurre un semplice esperimento: misurare l’altezza in un campione di persone. Si riportano i valori di altezze sull’asse X (1 metro e 65, 1 metro e 67, e così via) e il numero di rilievi sull’asse Y.

Unendo i punti, si ottiene quella curva a campana… che ha un picco in corrispondenza di un valore medio. Per restare nell’ambito del nostro esperimento, tale valore medio in Italia corrisponde a 1 metro e 75cm negli uomini tra 35 e 44 anni, e va poi a scendere man mano che cresce l’età del campione.

La curva di distribuzione normale ha una precisa caratteristica: presuppone che il 95% dei valori (vedi figura) ricada in un intervallo pari a due volte la deviazione standard (σ) al di sopra ed al di sotto della media. Detto in parole povere: i valori estremi sono assai poco probabili.

Questo porta all’errore di sottostimare gli estremi, e sovrastimare la media. Un po’ come dire che se la tua età è compresa tra 35 e 44 anni e non sei alto 175cm, non sei normale.

Se questo approccio può funzionare nella produzione industriale (il mio macchinario non è soggetto ad “errori casuali” ed è quindi sotto controllo, producendo il 95% dei pezzi conformi alle specifiche), risulta del tutto inadeguato quando si parla di “fatti umani”.

Quasi tutte le questioni sociali non sono efficacemente descritte dal modello della curva normale.

Nassim Nicholas Taleb, nel suo ottimo e già citato “Il cigno nero”, fa un esempio molto chiaro. Consideriamo un campione di mille persone, col loro reddito annuo; e mettiamoci dentro Bill Gates.  Finirebbe certamente nel punto più basso della curva; eppure il suo patrimonio di 50 miliardi di dollari oscura quello di tutti gli altri! E’ un estremo poco probabile, ma assai importante.

Un interessante studio (“The Best & the Rest: Revisiting the Norm of Normality of Individual Performance”, Ernest O’Boyle Jr., Herman Aguinis) ci porta un ulteriore esempio paradigmatico: la performance sul lavoro.

In questo caso, la distribuzione è di tipo “Paretiano” e cioè non centrata sulla media:

Distribuzione Paretiana vs. Normale (dal link citato)

Ossia: non c’è un picco, ma una coda lunga.

Cosa significa? Che la maggior parte dei performer non ricade in corrispondenza della media. La media raccoglie solamente il 10% dei casi. Le performance migliori (più significative) sono ottenute da pochi “superstar”.

Ecco quindi che il concetto di media è del tutto privo di significato. 

Una gestione basata sulla distribuzione normale può portare il management a compiere errori quali:

  • Stabilire gli obiettivi (es. target di produzione) sulla base del tempo “medio” di produzione, senza considerare che si può fare molto di meglio (e c’è chi lo fa, anche se pochi);
  • Concentrarsi sulla formazione dei dipendenti a performance media o bassa, ignorando le poche “superstar” che invece fanno la maggior parte del lavoro;
  • Gratificare il salario della media dei dipendenti anziché dei “superstar”;

E così via.

La cosa diventa particolarmente evidente nei lavori creativi. La Apple non sarebbe stata la Apple senza il suo “superstar” Steve Jobs, o altre “superstar” come Jony Ive.

Lo studio chiarisce che l’intento non è quello di discriminare chi non è “superstar”, quanto ragionare sul modello. Ad esempio, un cattivo performer in un determinato ruolo, può diventare una “superstar” in un altro.

Anche al di fuori delle aziende, comunque, resta evidente un fatto: la media non è così importante come il retaggio culturale ci impone di pensare.

Insomma: giusto per citare nuovamente Apple, “Think different”.